L’emergenza sanitaria legata al diffondersi del Covid-19 ha avuto un fortissimo impatto sulla realtà del nostro Paese, che ha visto la chiusura di molte attività commerciali durante il “lockdown”, per un periodo di tre mesi, ed una lenta ripresa nel periodo successivo, soprattutto in alcuni tipi di attività produttive, quali quelle legate al commercio, alla ristorazione ed al turismo, che a tutt’oggi risentono ancora della crisi economica che le ha coinvolte.
Tra le tante problematiche insorte, di particolare rilevanza è stata quella inerente la sorte dei contratti di locazione ad uso commerciale.
Infatti i titolari degli esercizi commerciali cui è stata imposta la chiusura dell’attività, trovatisi nell’impossibilità di far fronte al pagamento del canone di locazione in assenza di proventi derivanti dall’esercizio della propria attività imprenditoriale, si sono subito chiesti se fosse stato lecito astenersi dal pagamento del canone di locazione, adducendo la straordinarietà delle circostanze e sottolineando lo squilibrio del sinallagma contrattuale che si è venuto a creare: a fronte del pagamento del canone di locazione da parte del conduttore, lo stesso non può godere in modo pieno dell’immobile oggetto del contratto.
I provvedimenti governativi emanati d’urgenza non hanno dato una mano per risolvere la questione.
Ed invero il decreto “Cura Italia”, in ordine ai contratti di locazione, ha dettato una sola norma, (l’art. 65) consentendo ai conduttori di attività commerciali una detrazione d’imposta pari al 60% del canone locatizio per un periodo di tre mesi, non intervenendo quindi nel rapporto locatore-conduttore.
Ha poi dettato una norma (art. 91) che prevede che il rispetto delle misure di contenimento relative al Covid, devono essere sempre valutate al fine di escludere la responsabilità del debitore ai sensi e per gli effetti degli artt.li 1218 e 1223 c.c., per ritardi o omessi adempimenti alle obbligazioni assunte.
Tale norma assurge a criterio generale valevole per ogni tipo di obbligazione e impone l’applicazione di un principio di ragionevolezza e buona fede nella valutazione del comportamento del debitore, e può essere quindi applicata, analogicamente, ai contratti di locazione.
Le disposizioni governative però non hanno risolto le problematiche prettamente giuridiche connesse alla pendenza di un contratto di locazione il cui sinallagma è venuto meno a causa dell’emergenza sanitaria.
Di fronte alle lacune normative la giurisprudenza di merito, dovendo affrontare i primi casi di richieste di sfratto per morosità, si è chiesta se dovesse o meno convalidare lo sfratto ed ingiungere il pagamento dei canoni non corrisposti.
In sostanza la giurisprudenza si è interrogata se e quali strumenti l’ordinamento giuridico preveda in favore del conduttore, in situazioni di questo tipo; si è chiesta cioè se sia consentito al Giudice procedere ad un riequilibrio delle prestazioni contrattuali, autorizzando una sospensione o riduzione del canone locatizio, senza addivenire alla risoluzione del contratto.
Sul punto è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione con una esaustiva e condivisibile relazione (la n. 56/2020).
La Corte si è dapprima soffermata sul concetto di impossibilità sopravvenuta ex artt. 1463 e 1464 c.c., ritenendo però tale disciplina non applicabile al contratto di locazione posto che la prestazione del locatore continua ad essere resa sebbene sia affievolita l’utilità del conduttore.
Si è poi soffermata sull’istituto della eccessiva onerosità, ex art. 1467 c.c. Tale norma prevede che il contratto è suscettibile d’essere risolto quando la prestazione, per il verificarsi di “avvenimenti straordinari e imprevedibili”, è diventata per una delle parti “eccessivamente onerosa”.
Ritiene la Corte che la predetta norma è senz’altro invocabile dal conduttore, ma precisa che il ricorso a tale istituto ha come inequivocabile conseguenza la risoluzione contrattuale. Ed infatti la parte fragile non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni contrattuali né può pretendere che l’altro contraente accetti condizioni diverse da quelle pattuite.
Tuttavia la risoluzione del contratto non è la soluzione ottimale in quanto la definitiva risoluzione del rapporto, piuttosto che una transitoria riduzione dei corrispettivi tra le parti contrattuali, condurrebbe a fare terra bruciata nelle relazioni sia d’impresa che tra privati e peraltro non sempre corrisponde al reale interesse del conduttore che, in realtà, intende conseguire un ridimensionamento del corrispettivo che, come detto, l’art. 1467 non contempla.
Secondo la Corte è allora la buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto, ex art. 1375 c.c., ad assumere un’assoluta centralità, postulando la rinegoziazione come un adattamento necessario del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute.
Le parti dovranno contrattare per arrivare a un nuovo accordo “volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell’alea normale” e la parte che non ottiene il contratto modificativo può rivolgersi al giudice – al quale è dato quindi il potere di intervento riequilibriativo – affinché lo costituisca con sentenza.
Al summenzionato principio si è subito attenuto il Tribunale di Roma il quale, adito dal conduttore di un immobile, ha ridotto il canone di locazione del 40 % per il periodo del “lockdown” e del 20% fino al marzo 2021, ritenendo che la ripresa in pieno dell’attività economica non si rinvenga prima di tale periodo.
Una tale interpretazione lascia uno spiraglio di luce ai conduttori per la ripresa della loro attività economica.