InItalia, per la prima volta nella storia, si è aperta la strada alla possibilità di ricorrere al “suicidio assistito”.
A stabilirlo è stato il Tribunale di Ancona che, con una ordinanza emessa nello scorso giugno 2021, ha statuito il diritto di un soggetto, irreversibilmente malato, di autodeterminarsi nell’assunzione di un farmaco idoneo a provocargli la morte previa verifica, da parte della Asl competente, di alcuni rigorosi presupposti.
Per comprendere meglio quanto sia innovativo il principio stabilito dai Giudici marchigiani, appare utile distingue i concetti di “suicidio assistito”, “eutanasia attiva” ed eutanasia passiva” e quanto fino ad oggi previsto in materia dalla legge e dalla giurisprudenza.
Si può parlare di suicidio assistito quando un medico si limita a prescrivere ad un malato un farmaco in grado di provocarne la morte, e sarà poi il paziente stesso a decidere quando utilizzarlo personalmente.
Nell’eutanasia attiva invece il decesso viene provocato in maniera diretta dall’operatore sanitario attraverso la somministrazione di un farmaco che induce la morte, mentre, infine, nell’eutanasia passiva il sanitario sospende le cure o spegne i macchinari che tengono in vita la persona.
L’eutanasia passiva dal 2018 è regolata dalla legge sul testamento biologico (l.n. 219/2017) che ha previsto la facoltà del paziente di rifiutare o rinunciare al trattamento sanitario ed il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa ed è esente da ogni responsabilità civile e penale che possa derivare dall’omessa assistenza sanitaria.
Viceversa il suicidio assistito e l’eutanasia attiva non sono in alcun modo disciplinati dalla legge ed il ricorso a tali pratiche è sempre stato considerato illegale e fonte di responsabilità penale.
Nel 2019, però si è pronunciata sul tema, per la prima volta, la Corte Costituzionale, la quale ha fatto un passo rivoluzionario rispetto al passato con la sentenza “Cappato” (n. 249/2019), che ha stabilito la non punibilità dei soggetti che, nel caso in cui sussistano determinati presupposti, forniscano assistenza al paziente che intende interrompere la propria vita.
La sentenza in parola, pur non avendo sancito il diritto al suicidio assistito -essendosi limitata a prevedere una causa di non punibilità per coloro che scelgono di aiutare chi ha deciso di porre fine alla propria vita-, ha tuttavia sostanzialmente ammesso, in condizioni circoscritte, la legittimità di tale pratica, rimandando alle strutture sanitarie pubbliche il dovere di verificare se sussistono quattro imprescindibili condizioni:
1. se la persona è “affetta da una patologia irreversibile”;
2. se la persona soffre di una patologia “fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili”;
3. se la persona è “tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”;
4. se la persona è “capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
La sentenza della Corte è intervenuta a seguito dell’azione penale esercitata nei confronti del Sig. Marco Cappato che ha condotto Fabio Antoniani, meglio conosciuto come DJ Fabo, in una clinica Svizzera per essere sottoposto ad eutanasia, che in quel Paese è lecita.
Ma il Tribunale di Ancona è andato oltre il principio espresso dalla Consulta, riconoscendo al malato un vero e proprio diritto ad ottenere un farmaco che lo aiuti a morire.
La vicenda dei giudici anconetani trae origine dalla vicenda di un uomo di 43 anni, affetto da tetraplegia, che vive totalmente immobilizzato da circa dieci anni, le cui condizioni, scaturite in seguito a un incidente stradale, sono irreversibili.
L’uomo ha sostenuto che, in forza della sentenza Cappato della Corte Costituzionale, avrebbe avuto diritto, ricorrendo nel caso di specie i presupposti previsti dalla sentenza, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di ricorrere al suicidio assistito.
Inizialmente il Tribunale ha denegato il provvedimento, sostenendo che un conto è enunciare la non punibilità per un soggetto che aiuta un paziente a morire, diverso è sostenere che esiste un diritto soggettivo del malato a togliersi la vita, e un corrispondente obbligo dei sanitari a somministrare il farmaco letale.
A seguito del reclamo proposto dal paziente, il Tribunale Civile di Ancona, in sede collegiale, ha cambiato posizione ed ha imposto all’Azienda sanitaria regionale Marche di “provvedere, previa acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente, ad accertare: se il reclamante sia persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili; se lo stesso sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; se le modalità, la metodica e il farmaco prescelti siano idonei a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile”, riconoscendo le ragioni del ricorrente in presenza dei richiamati presupposti.
Tale sentenza è stata da alcuni definita “storica” e tale da aprire le porte ad ulteriori decisioni affini a quella emanata che ribalterebbero le posizioni fino ad oggi consolidatesi sulla pratica del suicidio assistito e dell’eutanasia attiva.
Vista la delicatezza e l’importanza sociale della materia, lo scrivente ritiene auspicabile un intervento legislativo che permetta o vieti il suicidio assistito e l’eutanasia attiva, disciplinandone in maniera rigorosa i presupposti.
È infatti indubbio che detta materia necessiti di una disciplina chiara ed univoca, che eviti interventi giurisprudenziali variegati e dettati dalla sensibilità interpretativa di ciascun Giudicante. La qual cosa è stata del resto sollecitata più volte dalla stessa Consulta.
Avv. Renato Caruso
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